Letizia Moroni   Per condividere con voi idee, pensieri, considerazioni...

L'Expo

Nel 2008 si decide di portare l’Expo a Milano, dopo ben 100 anni.
Era l’epoca politica di Romano Prodi, Letizia Moratti, Massimo D’Alema e Roberto Formigoni, larghe intese quindi in nome del business. A maggio 2013 l’amministratore delegato di Expo Spa, Giuseppe Sala, viene nominato dal governo Letta Commissario Unico di Expo, si evince quindi che i ritardi degli anni precedenti aprono ad arte la strada per la gestione commissariale, quindi l’eccezione diventerà regola e norma allo stesso tempo. In nome di Expo infatti tutto diventa possibile, lavoro gratuito, mal pagato ed a termine, cemento ed appalti concessi in maniera diretta, uso della stampa per magnificare l’evento.
Il Grande tema o la grande bugia dell’evento è tutta nello slogan “ nutrire il pianeta”, un specie di eredità morale fatta di buoni propositi e grandi ideali. Ideali condivisi ed apprezzati dalle lunghe code di visitatori che, presenti costantemente nelle immagini televisive, hanno decretato fin dal primo giorno, l’indiscutibile sensazione di un grande successo della manifestazione, la prova del quale non è mai avvenuta tramite dati precisi.
Una certa retorica su l’Expo è palpabile, la sfavillante esposizione nei padiglioni che esalta e presenta le peculiarità di tutte le culture, nasconde, in realtà, la reale condizione dei paesi in vetrina, paesi afflitti dalla crisi economica e dai conseguenti tagli sul fronte pubblico che hanno portato i servizi di base al limite della sostenibilità.
La faccia ipocrita di Expo esce fuori in tutta la sua brutale realtà, se infatti approfondiamo la questione “lavoro” all’interno dell’evento, troviamo un livello spudorato di precarietà, il lavoro è l’unico settore in cui si bada al risparmio, con l’accordo del luglio 2013 firmato dalle organizzazioni sindacali confederali e da Expo2015 spa, si codifica la figura del lavoratore “volontario”, che presterà servizio all’interno di Expo2015 permettendone lo svolgimento.
Circa 18.500 volontari, un esercito di lavoratori non retribuiti a coprire mansioni che potevano essere tranquillamente retribuite (come i lavoratori degli stand delle fiere). E’ giusto o pericoloso parlare di modello Expo per giustificare la nuova legislazione sul lavoro voluta da Renzi?
Ci sono anche i 1000 volontari del Touring Club Italia, che hanno svolto le loro mansioni presso i musei cittadini garantendone la funzionalità e sostituendo figure professionali che, normalmente, vengono retribuite, come ad esempio le guide turistiche. Non mancheranno assunzioni di lavoratori a tempo determinato, figura di lavoratore meglio retribuita e tutelata.
Se è vero come dice Feuerbach che “l’uomo è cio’ che mangia”, possiamo affermare che l’Expo rappresenta un’accurata elaborazione delle conoscenze relative al cibo, che rappresentano fortemente l’identità di appartenenza di ciascun paese. Questo patrimonio, anche immateriale, tra immagine e sapori rappresenta la forza e forse il motivo, per non considerare inutile questa vetrina mondiale.
Carne sì, carne no, cibo cotto, cibo crudo, tutto questo rappresenta un elemento fondamentale delle varie culture a livello, sicuramente antropologico e storico, ma soprattutto a livello economico. L’uomo nel procurarsi cibo crea, si ingegna, cresce, il cibo ed il lavoro che ne consegue rappresentano anche la morale di una società. Non arrendersi però all’avidità economica, al profitto senza regole, cercare di risolvere i bisogni alimentari senza devastare il clima o le biodiversità, diventano la vera sfida contemporanea e il senso di questa vetrina mondiale.
L’alimentazione, che potremmo definire “identitaria”, deve diventare un percorso che valorizzi la cultura e la ricchezza locale ma sostenibilità e rispetto del pianeta, devono essere l’essenza, la vera sfida dell’EXPO.
In questo contesto interpretativo dell’Expo, il movimento dei NO Expo, movimento che nelle motivazioni ci aiuta ad avere un diverso punto di vista dell’evento, può aver avuto il merito di averci posto degli interrogativi importanti sopra accennati, ma corruzione, inchieste, lavoro gratuito, spreco di denaro, diventano motivazioni minori quando sono superate da una rappresentazione che può essere interpretata come: incontro tra culture.
Qualcuno, a proposito dei movimenti No Expo ha parlato di “pornografia della devastazione”, anche se i cortei non sono mai pornografici, penso che un piccolo numero di teppisti infiltrati, non devono cancellare le motivazioni sacrosante che spingono persone di diverse estrazioni geografiche e culturali a manifestare, c’è sempre bisogno di radicalità quando iI pericolo è il pensiero unico.
Ma cosa ne è stato del movimento NO EXPO, e soprattutto da chi è rappresentato tale movimento? Il movimento, è una rete eterogenea di realtà e soggettività (comitati, associazioni, centri sociali, attivisti del sindacalismo di base, militanti della sinistra radicale) e nasce nel 2007 contro la candidatura di Milano a ospitare Expo 2015, convinti che la rassegna non sia un’opportunità, ma una sciagura per il territorio, i beni comuni, le casse pubbliche.
Questa convinzione originaria resta valida, perché in fondo, non si contesteranno le politiche dell’Agro-Industria, degli OGM, delle monoculture e delle sementi ibride che affamano 4/5 del Pianeta, non si parlerà di alimentari imposti a chi per secoli ha vissuto mangiando e bevendo e che di colpo si ritrova senza cibo e acqua a causa di un modello di sviluppo da secoli basato sullo scippo di risorse e futuro. Un modello che le tante campagne ONU, comprese quelle che sponsorizzano Expo 2015, non hanno certo scalfito.
Expo alimenta un meccanismo, peraltro già consolidato a Milano, di privatizzazione, con spoliazione e trasferimento di ricchezza dal Pubblico agli interessi di pochi soggetti privati, a scapito dei bisogni e dei diritti della collettività. In sostanza, la critica dei No Expo, è la critica ad un modello di città, di sviluppo, di uso del territorio e dei beni comuni, che, rende la realtà priva di coesione sociale, precaria nel lavoro e nella vita, brutta paesaggisticamente, intollerante verso tutto ciò e tutti coloro che non sono compatibili con logiche di profitto.
Ma le domande che dovremmo porci sono queste: i precari, i disoccupati, i lavoratori sfruttati da questo grande evento, che hanno preso parte a questa fiera del lavoro gratuito, cosa pensano del movimento NO Expo? Cosa ha lasciato prima e dopo? Più che soffermarsi sulle devastazioni di piazza non sarebbe giusto esprimere delle valutazioni politiche? Piuttosto che sulle modalità di lotta del movimento, non sarebbe giusto parlare delle assenze di chi poteva contribuire, insieme alla parte costruttiva del movimento stesso, a sviluppare una riflessione più approfondita dei vari punti di vista dell’evento? La rinuncia a voler comprendere le ragioni di un movimento di lotta, non indebolisce la democrazia e un’analisi più approfondita delle dinamiche reali dell’Expo? L’assenza di un conflitto sul piano dialettico non può considerarsi in qualche modo anche una sconfitta o un limite delle sinistre del paese? Invece di commentatori servili, non era più costruttivo ascoltare anche il punto di vista di qualche attivista politico e cercare di guardare l’evento con un patrimonio di conoscenza maggiore? E’ vero che a volte i movimenti tendono ad auto isolarsi proprio per la radicalità delle idee, ma ciò che secondo i media è radicalità, non può essere invece considerato un patrimonio di idee da approfondire o da affrontare per capirne la validità?
E’ vero l’Expo è stata una vetrina scintillante in cui le classi subalterne hanno fatto da supporto fondamentale ma sono state sfruttate, ma è anche vero che Expo è stato un modo per avere comunque accesso a culture che, se pur mostrate nel loro lato migliore, sono comunque fonte di conoscenza ed arricchimento.
L’autoleggittimazione, la deresponsabilizzazione, il disimpegno, sono mali tipici italiani, per questo, valutare le ragioni dei no Expo avrebbe significato un lavoro della mente verso altri modelli culturali. Elaborare un nuovo modello di sviluppo è proposito primario che può farci interpretare l’Expo come un momento importante di riflessione.
Sappiamo che per l’‘uomo l’atto del mangiare, investe tutti gli ambiti dell’esistenza, ha quindi un profondo significato antropologico. Il tema scelto dagli organizzatori è appunto il cibo in tutta la sua profondità e ricchezza, attraverso il cibo, si creano molte relazioni umane ed è il segno della relazione con gli altri abitanti del pianeta, oltre che un canale della relazione dell’uomo con l’ambiente e l’intero pianeta, il cibo ha anche una forte valenza simbolica ed è quindi importante anche per l’esperienza religiosa.
L’Expo ha rappresentato un’opportunità per affrontare molte questioni sulle contraddizioni del cibo, “c’è cibo per tutti ma non tutti possono mangiare” . Nel mondo a fianco di 800 milioni di malnutriti, vivono 500 milioni di obesi e un miliardo circa di persone in sovrappeso. Il 65% della popolazione mondiale vive in Paesi dove le conseguenze dell’eccesso di cibo fanno più vittime della malnutrizione. Da considerare che in un’economia di mercato, il cibo, come tutti i prodotti, rappresenta un modo per fare profitto e questo provoca che la mentalità volta al consumo, crei un disequilibrio notevole che mette al rischio la salute di molti, chi non ha risorse per acquistare cibo muore, chi eccede nel consumo di cibo rischia la vita ugualmente.
Il cibo dovrebbe essere considerato un “bene comune” dell’umanità in modo che tutti ne possano usufruire. I paradossi che ruotano attorno al cibo ed anche le argomentazioni a volte strumentali che tendono a depotenziare questi paradossi, sarebbero potuti essere argomenti dell’Expo, una sfida dell’Expo, cioè smascherare cio’ che si cela dietro alla diseguaglianza nell’alimentazione. L’Expo avrebbe dovuto individuare percorsi collettivi globali per riscoprire il primato dell’uomo rispetto al profitto, della politica sull’economia, della ragione sugli interessi. Cosa ci rimane di questo grande evento?

Letizia Moroni
19 novembre 2015


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